Dio, gli ebrei e noi
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Le schede di ossin, 3 luglio 2024 - E adesso, che ne è stato del Dio ebraico che abbiamo adottato con il cristianesimo? È morto. Gli europei hanno respinto questa blasfema presa in giro di Dio, e ora si ritrovano senza Dio. Nel frattempo, il potere ebraico è vivo e vegeto (nella foto, Papa Francesco al muro del pianto)
Unz Review, 29 giugno 2024 (trad. ossin)
Un ingannevole contratto di civiltà
Dio, gli ebrei e noi
Laurent Guyénot
I rabbini affermano spesso che l'antisemitismo è il risentimento di coloro che non sono stati scelti da Dio, una sorta di complesso di Caino
Il consigliere politico ebreo francese Jacques Attali propone una variante più sottile: l'antisemitismo è il risentimento verso coloro cui siamo debitori [1]. Cosa devono i cristiani agli ebrei? Dio, ovviamente! Senza gli ebrei non conosceremmo Dio e per questo proviamo risentimento nei loro confronti.
Non sono d'accordo. Se i Goyim sono ingrati, potrebbe essere perché, nei recessi più profondi della loro anima, sanno di essere stati ingannati. Hanno accettato dagli ebrei un Dio falso, una falsificazione grottesca e malevola. Ancor peggio, gli ebrei li hanno persuasi molto tempo fa a buttare via ciò che di reale avevano sempre avuto.
Noi cristiani abbiamo firmato un contratto di civiltà che da duemila anni ci proibisce di accedere all'idea di Dio attraverso la sola ragione, come ci avevano insegnato i Greci e i Romani, e che invece esige la nostra adesione alla "rivelazione" degli ebrei che Dio è il dio di Israele. Gli ebrei ci hanno così spogliati della libertà più essenziale, e hanno ottenuto da noi il riconoscimento della loro originaria superiorità metafisica, un potere simbolico ineguagliabile e inarrestabile.
La civiltà dell'astuzia
Avremmo dovuto saperlo. È abbastanza chiaro nelle scritture ebraiche che l'astuzia è l'essenza dell'ebraismo. È ingannando suo padre, suo fratello e suo zio che Giacobbe divenne l'eponimo fondatore di Israele (Genesi 25-36). John E. Anderson ha cercato di giustificare questa "teologia dell'inganno" ebraica in un libro intitolato Jacob and the Divine Trickster (2011). Come può Dio essere "complice dell'inganno di Giacobbe"? La risposta di Anderson è che Dio doveva esserlo, per lo scopo più alto della "perpetuazione della promessa ancestrale" [2]. Ma ovviamente la domanda in sé è stupida a meno che, come Anderson, non si sia vittima dell’inganno biblico di fondo e si non prenda sul serio il Dio biblico. Se si considera invece Yahweh come “il dio di Israele che finge di essere Dio”, allora tutto è perfettamente logico: come Dio, come le persone e viceversa.
L'origine di questo trucco metafisico sembra risalire al V secolo a C, nella Babilonia sotto la dominazione persiana, quando Esdra pubblicò la prima versione del Tanakh (poi rivista dagli Asmonei). Come ho spiegato in From Yahweh to Zion (Da Yahweh a Sion), il sotterfugio è quasi trasparente nei Libri di Esdra e Neemia, in cui la divinità chiamata “Yahweh, il Dio di Israele” nel corpo principale del testo, viene invece chiamata “Yahweh, il Dio del Cielo” nei falsi editti attribuiti ai re persiani che autorizzavano la ricostruzione del tempio di Gerusalemme: il sottinteso è che i persiani zoroastriani siano stati indotti con l’inganno a credere che gli ebrei adorassero il Dio universale.
Esdra viveva all'epoca del re persiano Artaserse I, che aveva una politica religiosa notoriamente tollerante. È interessante notare che Erodoto, che visse nello stesso periodo, scrisse questo riguardo ai Persiani: “Ritengono che la menzogna sia la cosa più vergognosa di tutte”.
Non è chiaro fino a che punto i persiani siano stati realmente ingannati dagli ebrei (allora chiamati giudei). Ma da quel giorno, il rapporto del regno giudaico con l'impero (e più in generale con i gentili) si è basato su questo stesso doppio linguaggio: ai gentili viene detto che il Tempio di Gerusalemme è dedicato al Grande Dio universale, ma gli ebrei sanno che è la dimora del dio di Israele, dove solo gli israeliti sono ammessi. Questo doppio linguaggio diventa un paradossale duplice significato: Yahweh è contemporaneamente il Dio universale e il dio nazionale di Israele. E questo paradossale duplice significato è interiorizzato dagli ebrei stessi, la cui mente è distorta da questa sciocchezza cognitiva di generazione in generazione.
Un altro aspetto di questo piano è il duplice significato di ebraicità, che per gli ebrei significa separazione etnica, ma che ai gentili viene presentata come fede nel Dio universale. Il primo significato ha un valore pratico, il secondo teorico; la pratica è per gli ebrei, la teoria è per i gentili. Ma il duplice significato è interiorizzato, e gli ebrei ritengono che ciò che li unisce sia una religione (ebraismo) e una comunità genetica (ebraismo).
Israele è quindi la civiltà dell’inganno, dell’astuzia, del linguaggio ambiguo, delle bugie e di qualunque altro sinonimo possiate trovare. L'astuzia era inizialmente un modo di sopravvivenza collettiva per gli ebrei in tempi di Esilio o Dispersione, ma nel corso dei secoli divenne uno stile di vita e una tecnica di dominio.
La civiltà romana era basata sulla cultura greca, incentrata sulla saggezza, sinonimo di verità. Sebbene Roma avesse anche una passione per la costruzione di imperi, questa si basava su una passione per la legge, che era un'applicazione pratica della ragione greca. Questo l'ho spiegato nel mio precedente articolo ("Israele contro diritto internazionale"), dove ho contrapposto la legge di Roma basata sulla ragione umana e sull'universalismo, alla legge di Israele basata sulla rivelazione divina e sullo sciovinismo etnico.
Ricorderò qui brevemente i tre episodi principali della lotta all'ultimo sangue tra la civiltà romana e quella ebraica, iniziata in epoca ellenistica e terminata con la conversione di Roma al cristianesimo. Ma prima risolviamo la questione di Dio: i romani credevano in Dio? In altre parole: avevamo bisogno che gli ebrei ci facessero conoscere Dio?
Il Dio dei romani
Di solito pensiamo al conflitto tra Roma e Gerusalemme come un conflitto tra politeismo e monoteismo. Questo non è falso. Nessun popolo era più politeista dei romani. Erano così ospitali nei confronti degli dei che adottarono persino gli Dei dei popoli vinti. Mitra è un esempio calzante.
Ma il contrasto tra politeismo e monoteismo è superficiale. I romani istruiti credevano nell'unità del divino, cioè in un solo Dio. Hanno riconciliato questo monoteismo filosofico con il politeismo popolare e civico in due modi. Innanzitutto, c'era un Dio supremo, che chiamavano Giove, che significa semplicemente "Dio Padre" (da Diu e Pater). In secondo luogo, tutti gli dei potrebbero essere considerati diverse manifestazioni o rappresentazioni limitate del divino. Pertanto “Dio” e “gli dei” sono espressioni indifferenti nella “De Natura Deorum” di Cicerone e in molti altri testi antichi. (E ricordiamo che in una delle fonti più antiche della Bibbia ebraica, il singolare El e il plurale Elohim sono usati in modo intercambiabile.)
Pensiamola in questo modo: perché Dio dovrebbe essere maschile anziché femminile, e singolare anziché plurale? I Greci, come gli Egizi, trovavano naturale immaginare il divino sia come diversità che come unità. Il politeismo era un monoteismo inclusivo.
I romani più istruiti erano eclettici nelle loro opinioni filosofiche, ma la scuola più influente era lo stoicismo. Ebbe il favore di Cicerone alla fine della Repubblica, e di Marco Aurelio al culmine dell'Impero. Che gli stoici professassero una forma di monoteismo è fuori discussione. In un famoso Inno a Zeus, il filosofo stoico Cleante (III secolo a.C.) definì Dio “il grande Sovrano della Natura, che governa tutto secondo la legge”, al quale gli uomini devono volgere la mente per vivere “la vita nobile, l’unica vera ricchezza”. Cleante pregò affinché le persone che fanno il male per ignoranza possano essere illuminate: “Disperdi, o Padre, le tenebre dalle loro anime”.
Si dice che gli stoici confondessero Dio con il Cosmo o con la Natura, e per questo sono stati etichettati in tempi moderni come “panteisti”. Ma dobbiamo stare attenti alle parole greche e alle loro traduzioni: Kosmos significa “ordine”, implicando un “Progetto Intelligente”, e Natura (Phusis) ha un significato dinamico: è il principio animatore all’interno della Natura.
Greci e romani, tuttavia, non pretendevano di conoscere Dio, tanto meno di sapere ciò che Dio vuole, ciò che Dio dice o ciò che piace a Dio. Tale antropomorfismo si poteva applicare agli Dei, ma non a Dio. Dio è, per il filosofo, l'inconoscibile, o almeno l'indicibile, poiché dire qualsiasi cosa su Dio significava porre un limite all'infinito. Questa possiamo chiamarla umiltà filosofica, che contrasta con l’arroganza teologica.
Ma se Dio è inconoscibile, le leggi con cui governa il Cosmo sono in parte accessibili alla scienza umana. Queste leggi costituiscono una sorta di principio intermedio, il pensiero creativo o la sapienza di Dio, chiamato Logos nella tradizione platonica, a volte identificato con la Sophia femminile, la Sapienza di Dio. Il fatto che l'universo sia governato da leggi naturali è la prova dell'esistenza di Dio, secondo Cicerone (De Natura Deorum II.12.34):
- Quando infatti guardiamo verso il cielo e contempliamo i corpi celesti, cosa può essere così ovvio e manifesto come l'esistenza di un potere dotato di intelligenza trascendente, dal quale queste cose sono governate?
Il Dio degli ebrei
A differenza dei Romani che pensavano che Dio fosse inconoscibile direttamente, gli Ebrei ritengono che loro, e solo loro, conoscano Dio personalmente. Solo loro conoscono il vero nome di Dio, che egli rivelò a Mosè in un colloquio personale. Sanno persino l'indirizzo di Dio: vive a Gerusalemme e in nessun altro posto (lo portarono lì dal Sinai in un'arca). Solo gli Ebrei hanno abbastanza familiarità con Dio da sapere cosa Gli piace e cosa non Gli piace (Gli piace il "gradevole odore" degli olocausti, per esempio, Genesi 8:21), o cosa vuole in un momento particolare, a seconda del Suo umore. Il Dio ebreo è un individuo, ed è parlante.
La cosa più importante, naturalmente, è che gli ebrei sanno che Dio li ha scelti per governare il mondo. Dio ha detto loro in Deuteronomio 32:8-9 che dopo aver creato tutte le nazioni, ha delegato un piccolo "figlio di Dio" (angelo?) a ogni nazione, ma ha tenuto Israele per sé. E le altre nazioni devono servire Israele o perire: "I re cadranno prostrati davanti a te, con la faccia a terra, e leccheranno la polvere dei tuoi piedi", mentre "farò mangiare ai tuoi oppressori la loro stessa carne" (Isaia 49:23-26). Così parlò Yahweh!
Secondo i greco-romani, Dio comunica con gli uomini attraverso la ragione. La ragione è la fonte della conoscenza, e la conoscenza è la fonte della virtù, che è una vita in armonia con il cosmo (e con la propria natura o destino), e la fonte della vera felicità. Questo è lo stoicismo in poche parole.
- A differenza del Dio greco-romano, il Dio ebraico non si collega al suo popolo tramite la ragione, ma tramite la legge. "Conoscenza del bene e del male", il punto centrale della filosofia greca, è il frutto proibito in Genesi 3, una storia che è un ovvio attacco polemico all'ellenismo (il che dimostra l'origine tardiva di questa storia). Il pagano romano Celso (intorno al 178 d.C.) affermò che il Dio ebraico è il nemico della razza umana "poiché maledisse il serpente, dal quale i primi uomini ricevettero la conoscenza del bene e del male".[3] Non esiste altro standard morale nella tradizione ebraica se non quello di seguire le leggi e i comandi arbitrari di Yahweh (come uccidere tutti in questa o quella città).
- Il Dio supremo è per i Romani, e in particolare per gli Stoici, un principio di unità, e quindi di armonia tra gli uomini. Il Dio ebraico, al contrario, porta divisione: la sua Legge (Torah) mira principalmente a separare il suo popolo eletto dal resto dell'umanità. Ancora prima che Abramo nascesse, il Dio ebraico odiava vedere gli uomini accordarsi tra loro per realizzare grandi cose, come una grande città con "una torre la cui cima toccasse il cielo". Disse a se stesso: "Scendiamo e confondiamo la loro lingua, perché l'uno non capisca ciò che dice l'altro" (Genesi 11:6-7). Poiché la civiltà ellenistica era fondata sull'uso universale della lingua greca, possiamo rilevare in questa storia della Torre di Babele, proprio come nella storia del Giardino dell'Eden, una dichiarazione di guerra all'ellenismo.
Prima di opporsi a Roma, Gerusalemme si oppose alla civiltà ellenistica, che comprendeva i regni seleucide e lagide (o tolemaico). E come vedremo ora, c'era un'inequivocabile dimensione religiosa in questo scontro di civiltà, poiché il separatismo ebraico era causato direttamente dall'incomprensibile affermazione degli ebrei che il loro dio etnico era il Dio universale, in altre parole, che il Dio universale amava solo gli ebrei e voleva essere adorato solo dagli ebrei, a Gerusalemme.
Roma vs Gerusalemme: lo scontro di civiltà
Nel 167 a.C., il re Antioco IV Epifane, prendendo per buone le parole degli ebrei che Yahweh era il Dio Cosmico Supremo, fece dedicare il loro tempio a Zeus Olimpio. La maggior parte degli ebrei amava la cultura greca e non aveva obiezioni. Ma come sempre nella storia di Israele, un'élite fanatica fomentò una guerra civile e prese il destino di Israele nelle proprie mani (come raccontato nei Libri dei Maccabei). Questo episodio è interessante perché illustra la natura fondamentalmente ingannevole del monoteismo ebraico. Non solo gli ebrei si rifiutavano di mostrare rispetto per gli dei degli altri popoli, distruggendo i loro santuari ovunque potessero, ma negavano ai gentili il diritto di condividere il culto del loro dio, sebbene affermassero che fosse il Dio supremo di tutta l'umanità. Ciò era del tutto incomprensibile per i greci. Durante questo periodo apparvero le prime espressioni scritte di giudeofobia, che includono varie versioni della storia secondo cui gli ebrei non erano fuggiti dall'Egitto come sostenevano, ma erano stati espulsi da lì come lebbrosi fisici o spirituali.
Troviamo questa storia, ad esempio, in Diodoro Siculo, il quale racconta anche che, quando il re Antioco VII Euergete assediò Gerusalemme nel 134 a.C., i suoi amici “gli consigliarono caldamente di sradicare l'intera nazione, o almeno di abolire le loro leggi, e di costringerli a cambiare il loro precedente modo di vivere. Ma il re, essendo di spirito generoso e di indole mite, prese degli ostaggi e perdonò ai Giudei: demolì invece le mura di Gerusalemme e prese il tributo dovuto» (34,1). Così sopravvisse il regno asmoneo, finché non intervenne il generale romano Pompeo per porre fine ad una guerra civile e porre fine all'indipendenza ebraica (62 a.C.).
Nel 66 d.C., l'imperatore Nerone inviò il suo generale Vespasiano e suo figlio Tito a sottomettere una Gerusalemme ribelle. La guerra durò quattro anni e si concluse con il saccheggio e la distruzione del tempio. I romani normalmente accoglievano gli Dei dei popoli vinti, ma il dio degli ebrei, Yahweh, era considerato inassimilabile, addirittura velenoso. E così i suoi oggetti sacri furono trattati come bottino di guerra e, come spiega Emily Schmidt, "il popolo ebraico fu trasformato nell'antiromano per eccellenza: ribelli senza Dio sconfitti". [4] Inoltre, poiché gli ebrei di tutto il mondo erano soliti pagare due dracme (monete d'argento) all’anno per il loro tempio, Vespasiano ora li costrinse a pagare quella tassa al tempio di Giove in Campidoglio. [5] Il messaggio non potrebbe essere più chiaro.
Nella dinastia successiva, l'imperatore Traiano dovette reprimere le insurrezioni ebraiche in tutta la diaspora, e soprattutto nell'Africa settentrionale (115-117). Il suo erede Adriano cercò di sradicare la nazionalità ebraica mettendo al bando la circoncisione, sotto pena di morte. Dovette però affrontare una grave rivolta messianica a Gerusalemme, guidata dall'autoproclamato messia Shimon Bar Kochba, che riuscì a fondare per alcuni anni uno stato indipendente (132-135). La campagna militare romana fece 580.000 morti secondo Cassio Dione, che aggiunge: “A Gerusalemme, Adriano fondò una città al posto di quella che era stata rasa al suolo, chiamandola Aelia Capitolina, e sul sito del tempio del dio innalzò un nuovo tempio a Giove". [6] Gli ebrei furono banditi dalla città. Il nome di Israele fu cancellato e la nuova provincia fu ribattezzata Siria Palæstina (in ricordo dei Filistei da tempo scomparsi, di origine greca). Come commenta Martin Goodman in Rome and Jerusalem: The Clash of Ancient Civilizations : “Agli occhi di Roma e per volere di Adriano, gli ebrei avevano cessato di esistere come nazione nella loro stessa terra”. [7]
Dobbiamo quindi ricordare che la lotta tra Roma e Gerusalemme è una forza dialettica centrale nella storia antica. Questa realtà è stata ampiamente sottovalutata nella storiografia occidentale, erede di una civiltà cristiana che aspirava a riconciliare Roma e Gerusalemme.
Come Gerusalemme colonizzò Roma
Israele sopravvisse al tentativo di sradicamento di Adriano, grazie alla cultura talmudica della Diaspora. L'odio per Roma (identificata con Edom, cioè Esaù) divenne parte integrante di questo Israele senza terra. Questo odio stava certamente fermentando tra i 97.000 prigionieri ebrei riportati a Roma da Vespasiano e Tito (secondo Flavio Giuseppe), molti dei quali furono poi liberati, alcuni di loro, come lo stesso Giuseppe, addirittura adottati nella famiglia imperiale. Nei primi due secoli della nostra era, questo odio per Roma fu espresso in modo criptico nella letteratura ebraica apocalittica, spesso in termini presi a prestito dal Libro di Daniele: Roma era la quarta bestia nella visione di Daniele, con dieci corna sulla testa, "divorando e schiacciando con i suoi denti di ferro e artigli di bronzo, e calpestando con i suoi piedi ciò che era rimasto" (7:19-20).
Il Libro dell'Apocalisse, che chiude il canone cristiano, appartiene a questo genere letterario. Roma è designata come "Babilonia la Grande, la madre di tutte le prostitute", "cavalcando una bestia scarlatta che aveva sette teste e dieci corna e aveva titoli blasfemi scritti dappertutto" (17:3-5). "Babilonia è caduta, è caduta Babilonia la Grande", grida l'angelo; "in un solo giorno, le piaghe cadranno su di lei: malattia, lutto e carestia. Sarà bruciata tutta" (18:2-8). Segue una visione della rinascita di "Gerusalemme, la città santa, che scende da Dio giù dal cielo" (21:10).
Come spiegare questa demonizzazione di Roma in quella che sarebbe diventata la religione di Roma nel IV secolo? Oppure invertiamo la domanda: come spiegare che Roma si convertì a una religione la cui profezia programmatica era la caduta di Roma e la rinascita di Gerusalemme?
La conversione di Roma al cristianesimo è uno dei più grandi enigmi della storia umana. Ho condiviso alcune riflessioni su questa questione in "How Yahweh Conquered Rome" e ne aggiungerò altre qui.
Dobbiamo partire dal fatto, difficilmente contestato da nessuno, che il cristianesimo si diffuse inizialmente nella società romana dal basso, non dall'alto. Secondo l'autore pagano Celso, che scrisse sotto Marco Aurelio (161-180 d.C.), i predicatori cristiani, "che nei mercati eseguono i trucchi più vergognosi e che radunano folle attorno a loro, non si avvicinerebbero mai a un'assemblea di uomini saggi, né oserebbero esibire le loro arti tra di loro". Prendono di mira persone ignoranti e credulone, schiavi e donne in particolare (Origene, Contra Celsum, III, 50). Il cristianesimo fu denunciato dall'aristocrazia romana come sovversivo dei valori romani.
Ciò potrebbe aiutare a spiegare perché finì per essere promosso e poi imposto dagli imperatori romani. Nel terzo secolo, gli imperatori non erano più senatori romani, ma comandanti militari stranieri: la dinastia dei Severi (193-235) era di origine siriaca e punica, con un forte legame con il culto siriano di Elagabal (dall'arabo Ilah Al-Gabal, "dio della montagna"). Dopo di loro venne Filippo l'Arabo (244-249). Le dinastie costantiniana e valentiniana provenivano dai Balcani. Teodosio I (379-395) nacque nella Spagna cartaginese e potrebbe essere stato di discendenza punica. Tutti questi imperatori sembrano aver usato la superstizione popolare cristiana contro la classe senatoriale romana.
Un episodio rivelatore avvenne nel 357, quando Costanzo II ordinò la rimozione dell'Altare della Vittoria, con la sua statua della dea alata che reggeva un ramo di palma, dal Senato di Roma. Fu ripristinato da Giuliano, ma poi rimosso di nuovo da Graziano. L’importante senatore Simmaco pregò Valentiniano II di ripristinarlo insieme alle "cerimonie ancestrali" che portano la benedizione di Dio a Roma. "Chi è così amico dei barbari da non richiedere un Altare della Vittoria?" chiese.
Ovviamente c'era di più qui di una semplice lotta tra imperatori cristiani e senatori pagani. La rimozione della dea della Vittoria dal Senato romano! Potrebbe esserci un simbolo più inquietante? Era una rappresaglia per l'incendio del tempio di Gerusalemme?
Gesù uccise davvero Roma? I pagani romani la pensavano così. Dopo il sacco della città da parte di Alarico nel 410, i cristiani furono accusati di aver rovinato l'amore per la madrepatria e il coraggio di difenderla (Machiavelli avrebbe fatto lo stesso nei suoi Discorsi su Livio II.2). Agostino scrisse La città di Dio in risposta a quell'accusa. Non negò che ai cristiani non importasse nulla di Roma, essendo interessati solo alla loro città celeste. Ma voleva che i romani sapessero che qualunque cosa avessero sofferto durante il sanguinoso sacco della loro città, perdita di proprietà o persone care, era per il loro bene, poiché li avvicinava a Dio. Quanto alle giovani ragazze che erano state violentate, non dovevano preoccuparsi, perché le loro anime non erano contaminate, a meno che non avessero provato un po' di piacere, ovviamente (I.10)
Sebbene Roma avesse ripetutamente schiacciato militarmente Gerusalemme, la guerra alla fine si concluse con la resa spirituale di Roma. Quando la città di Roma divenne una colonia di Gerusalemme, con un papa seduto nel palazzo imperiale del Laterano, in Germania emerse un nuovo impero romano e la lotta tra queste due Roma divenne la questione centrale del Medioevo europeo. Federico II Hohenstaufen, l'uomo che affermò che "il mondo intero è stato ingannato da tre impostori: Gesù Cristo, Mosè e Maometto" (secondo l'accusa di Papa Gregorio IX), era una sorta di Adriano o Marco Aurelio, e un precursore del Rinascimento; i papi lo odiarono biblicamente, lo scomunicarono tre volte e fecero in modo che la sua discendenza fosse sterminata fino all'ultimo nipote.
Diciotto secoli dopo Adriano, l'Occidente cristiano restituì Gerusalemme e la Palestina agli ebrei. Per farla breve: la Roma pagana aborriva Israele e lo distrusse, la Roma cristiana venerò questo stesso antico Israele e lo ricreò.
E adesso, che ne è stato del Dio ebraico che abbiamo adottato con il cristianesimo? È morto. Gli europei hanno respinto questa blasfema presa in giro di Dio, e ora si ritrovano senza Dio. Nel frattempo, il potere ebraico è vivo e vegeto.
Note:
[1] Jacques Attali, The Economic History of the Jewish People, ESKA Publishing, 2010,
[2] John E. Anderson, Jacob and the Divine Trickster: A Theology of Deception and Yhwh’s Fidelity to the Ancestral Promise in the Jacob Cycle, Eisenbrauns, 2011, p. 1.
[3] Origen, Against Celsus, VI, 28.
[4] Emily A. Schmidt, “The Flavian Triumph and the Arch of Titus: The Jewish God in Flavian Rome,” su escholarship.org; anche Jodi Magness, “The Arch of Titus and the Fate of the God of Israel,” Journal of Jewish Studies, 2008, vol. 59, n°2, pp. 201-217.
[5] Martin Goodman, Rome and Jerusalem: The Clash of Ancient Civilizations, Penguin, 2007, p. 454.
[6] Id., p. 484. Eusebio di Cesarea ha una cronologia diversa, ma è una fonte molto più tarda.
[7] Id., p. 494.
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