Il Manifesto, 27 marzo 2012



Sud Sudan: fiction e realtà
Manlio Dinucci
 

Dopo la scena con George Clooney in manette, girata davanti all’ambasciata nord-sudanese a Washington, è andata sul set Hillary Clinton che, con le lacrime agli occhi, ha espresso la profonda preoccupazione degli Stati uniti per la crisi umanitaria e le sue molte vittime nella parte meridionale del Sudan. Scene toccanti della fiction washingtoniana, destinata alla platea mondiale. Ben diversa la vera storia.


Per decenni Stati uniti e Israele hanno sostenuto le forze secessioniste del Sud Sudan finché, nel 2005, Nord e Sud hanno firmato un accordo, considerato dall’amministrazione Bush un vero e proprio trionfo in politica estera. Ne ha raccolto i frutti l’amministrazione Obama: il 9 luglio 2011 il Sud Sudan si è autoproclamato indipendente. È così nato un nuovo Stato, con una superficie di oltre 600mila km2 (il doppio dell’Italia) e appena 8-9 milioni di abitanti. Separandosi dal resto del paese, il Sud Sudan è entrato in possesso del 75% delle riserve petrolifere sudanesi.


È però il Nord a possedere l’oleodotto, attraverso cui il petrolio del Sud viene trasportato sul Mar Rosso per essere esportato. Da qui il contenzioso tra i due governi sulla spartizione dei proventi petroliferi, acuito dallo scontro per il controllo di zone di frontiera lungo gli oltre 1500 km di confine, condotto anche attraverso gruppi armati locali.


In tutto questo, continuano a svolgere un ruolo chiave gli Stati uniti. Il Sud Sudan è sempre più inserito nel programma Imet (International Military Education and Training), gestito dal Comando Africa con fondi del Dipartimento di stato, in cui ogni anno vengono formati 10mila «leader militari e civili» africani, che frequentano corsi in 150 scuole militari statunitensi.


Contemporaneamente, con la regia di Washington, si sta mettendo a punto il progetto di un nuovo corridoio energetico che – formato da un oleodotto, un’autostrada e una ferrovia – permetterà di trasportare il petrolio dal Sud Sudan fino al porto kenyano di Lamu. I vantaggi per Washington saranno molteplici. Da un lato, tagliando fuori l’oleodotto nord-sudanese, assesterà un altro duro colpo al paese, già debilitato dalla perdita dei due terzi delle riserve petrolifere, così da far crollare il governo di Khartum. Dall’altro, emarginerà le compagnie cinesi che, insieme ad alcune indiane e malesi, estraggono il petrolio sudanese: la maggior parte potrà così essere controllata da compagnie statunitensi e britanniche.


E il Sud Sudan non ha solo petrolio, ma ricchi giacimenti di oro, argento, diamanti, uranio, cromo, tungsteno, quarzo ancora da sfruttare, cui si aggiungono circa 50 milioni di ettari di terra coltivabile, usando l’abbondante acqua del Nilo. Affari d’oro per le multinazionali, i cui interessi sono assicurati dal nuovo governo di Juba, la cui affidabilità è garantita non solo da Washington ma da Tel Aviv.


Significativo che il Sud Sudan aprirà la propria ambasciata a Gerusalemme, riconoscendola quindi come capitale, e Israele «formerà» migliaia di rifugiati sud-sudanesi prima di rimpatriarli. Mentre il governo di Juba, tra i suoi primi atti, sceglie l’inglese e non l’arabo come lingua ufficiale e chiede di entrare nel Commonwealth britannico. Alle ex vecchie colonie se ne aggiunge una di tipo neocoloniale.


 

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